Hannibal è finito, lunga vita ad Hannibal – Recensione

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“You owe me awe.”

Questo urla il Grande Drago Rosso a un terrorizzato dottor Chilton, in una delle sequenze più intense e spaventose che abbia mai visto in una serie televisiva.

E questa sensazione, di soggezione e di meraviglia, è anche la più appropriata di fronte al finale (forse definitivo, forse solo temporaneo) di una delle migliori serie degli ultimi anni, autentica opera d’arte che ha saputo via via migliorare se stessa e superare i propri limiti, nonostante gli ascolti insoddisfacenti e la conseguente cancellazione.

Già dalle prime puntate era emerso un livello qualitativo di gran lunga superiore alle stagioni precedenti e alla media generale, sotto tutti gli aspetti: regia, recitazione, dialoghi, fotografia, colonna sonora.

Il proseguo della stagione non solo ha confermato quanto c’era di buono, ma se possibile ha alzato ulteriormente l’asticella.

Molto del merito va all’ingresso in scena di Richard Armitage: calato in un personaggio le cui battute sono ridotte all’osso, l’attore inglese parla con il proprio corpo, fornendo un’interpretazione sofferta, catatonica, inquietante ed estremamente fisica, e regalando momenti di brivido e insostenibile tensione (meravigliosa la scena in cui divora il dipinto originale di William Blake, nel tentativo di distruggere il proprio mostruoso alter ego).

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Un’altra prova attoriale che merita elogi è quella di Gillian Anderson: la dottoressa Du Maurier, promossa a personaggio principale, è forse l’unica tra i “giocattoli” di Hannibal a conservare la propria lucidità, a comprendere le manipolazioni che subisce e a sfruttarle a proprio vantaggio: le sue sedute con Will aiutano lo spettatore a capire i meccanismi contorti della mente del serial killer, soprattutto la sua morbosa attrazione per il protagonista.

Ed è sincero il suo compiaciuto sadismo nel fargli notare come il dottor Lecter riesca, persino dalla stanza di un carcere, a utilizzarlo come un suo strumento, mentre lei monetizza la fama data dal ruolo di vittima superstite.

Eppure, la sua maschera di osservatrice crolla a pezzi nell’apprendere il piano di Will di liberare Hannibal per attirare in trappola il Drago, mostrandoci tutta l’umanità celata dall’apparenza di imperturbabile psichiatra.

Il centro di tutto però sono sempre loro, Will e Hannibal.

Dopo lo scontro alla fine della seconda stagione, Will ammette a se stesso ciò che ha sempre cercato di negare.

Nonostante le manipolazioni, nonostante le ferite – fisiche e psicologiche, nonostante la famiglia che è riuscito a costruirsi, una parte della sua mente non ha mai smesso di considerare Lecter un amico e di desiderare di fuggire insieme a lui; come lui stesso confessa, è solo in sua compagnia che riesce davvero a conoscersi.

Quanto ad Hannibal, la sua decisione di consegnarsi alla polizia può essere letta in entrambi i sensi: come supremo gesto d’amore, affinchè Will sappia sempre dove trovarlo in caso di bisogno; ma anche come ulteriore forma di persecuzione, per impedirgli di lasciarsi tutto alle spalle e voltare pagina.

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La comparsa del Drago spinge i due a unire le forze: se è vero che Hannibal coglie al volo l’occasione per costringere Will a uscire dal proprio isolamento e tornare sul campo (e di riflesso, per riottenere la libertà), è vero anche che non può tollerare che sia qualcun altro a uccidere il suo protetto.

Nel magnifico, mimico, quasi rituale combattimento sull’orlo della scogliera, ogni mossa dei due protagonisti feriti è mirata a salvare la vita dell’altro prima della propria.

E in quell’abbraccio finale, commosso, c’è il senso di tutta la storia, di un rapporto che va oltre l’amicizia, oltre l’amore, oltre l’ossessione.

Hannibal “voleva solo questo”: che Will riconoscesse la propria affinità elettiva con lui, che uccidesse insieme a lui, che diventassero un tutt’uno.

E Will non può che abbandonarsi e ammettere che “è bellissimo”, squarciando il velo e accogliendo in quell’abbraccio il proprio lato oscuro.

Perfetta la colonna sonora, con le struggenti note di “Love Crime” di Siouxsie Sioux (canzone composta appositamente per la serie, come ha orgogliosamente dichiarato Bryan Fuller, nonostante la cantante sia da anni lontana dai palcoscenici).

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Come Hugh Dancy ha spiegato in quest’intervista, la scena del tuffo dalla scogliera non ha una chiave di lettura univoca.

Il gesto parte da Will, che in un certo senso comprende che per distruggere Hannibal deve distruggere anche se stesso.

Come Bedelia gli ha detto in seduta, “you can’t live with him, you can’t live without him”: l’unica soluzione è una fine congiunta. Ma sarà stata una vera fine?

Fuller ha volutamente evitato risposte definitive…

…rivelando però che i progetti per una quarta stagione sono stati abbozzati, e non sono tramontati del tutto.

Impensabile un Hannibal senza i due protagonisti, e la scena post-credits sembra andare in questa direzione: Bedelia, seduta in abito da sera davanti a una tavola apparecchiata per tre, contempla con orrore la propria gamba sinistra amputata e servita come portata principale.

Hannibal e Will sono dunque sopravvissuti per l’ennesima volta?

Comunque vada, da spettatore voglio solo dire grazie.

Grazie a Mads Mikkelsen, per aver offerto una recitazione eccezionale, imponendosi come volto definitivo del dottor Lecter, senza nulla togliere a un certo Anthony Hopkins.

Grazie a Hugh Dancy, per aver dato vita con Mikkelsen a una delle coppie più complesse e affascinanti della televisione, portando sullo schermo tutti i tormenti e le angosce del suo personaggio.

Grazie a tutti gli attori, da Lawrence Fishburne a Gillian Anderson, da Richard Armitage all’irresistibile Raul Esparza, per aver completato un cast di una bravura che, forse, non rivedremo più.

Grazie a David Slade, Vincenzo Natali, Michael Rymer, Guillermo Navarro e tutti i registi che si sono avvicendati nei 39 episodi, per aver girato sequenze visivamente goduriose, ricercate come un dipinto e concettualmente profondissime.

Grazie, nonostante tutto, alla NBC, per aver dato carta bianca agli autori e aver ospitato per tre anni sulle proprie reti una serie così estrema e lontana dai gusti dello spettatore medio.

E soprattutto, grazie al mastermind Bryan Fuller, per aver confezionato un prodotto che rimarrà nella storia dell’horror, del thriller psicologico e della televisione in generale, e si porrà a pietra di paragone per chiunque in futuro affronterà questi generi.

È stato un pasto delizioso.