Dopo un lungo silenzio abbiamo un nuovo Dylan Dog scritto da “papà” Tiziano Sclavi, uscito dall’esilio autoimposto da anni. Per fare la rivoluzione, in fondo, ci voleva il ritorno del suo creatore.
Per respirare di nuovo l’atmosfera autenticamente dylandoghiana.
L’uomo che ha dato il via a tutto, 9 anni dopo l’ultima storia… ci parla. Dopo un lungo silenzio, appunto.
Sclavi è, in fondo, l’unico uomo capace di scrivere davvero Dylan Dog, perchè Dylan Dog, lo sappiamo tutti, è lui.
Esistono tanti Dylan, ma il “suo” è quello originale, e possiamo dirlo tranquillamente, unico.
Talmente unico e riconoscibile che questo numero, per quanto possa avere un 362 sulla costa, potrebbe stare benissimo tra le storie di vent’anni fa.
Ritroviamo il Dylan 100% sclaviano, pieno di entusiasmo, delusioni, tenerezze e depressione.
In preda alle debolezze, il personaggio creato dall’uomo che parla di mostri ma che è molto scettico sui fenomeni paranormali, cade in quello che è il mostro più pericoloso di tutti: l’alcolismo.
Autobiografia e fiction si intersecano in una storia che non cerca neppure per un momento di essere “capolavoro” ma che ci catapulta nel territorio dei demoni interiori, della battaglia contro i mostri che si agitano dentro.
Dylan, quello vero, ha sempre vissuto sul filo del rasoio con la sua immaturità e il suo codice “cavalleresco” che lo separa dall’autodistruzione.
Qui c’è (forse) un fantasma, assente per tutta la storia, ma ci sono tantissimi altri fantasmi: c’è il fantasma di Bree Daniels, grande amori di Dylan (“Memorie dall’Invisibile“), lo spettro dell’ alcolismo, il velo di umorismo vecchio stampo, l’ectoplasma del citazionismo pedissequo di cult anni ’80 (Poltergeist).
La storia assume un andamento che soltanto Tiziano Sclavi poteva scrivere: indolente e un po’ allucinato, esistenzialista un po’ dolce un po’ disperato.
Ti verrebbe voglia di abbracciarlo, questo Dylan, e poi di prenderlo a schiaffi.