Prendete i Coen più cupi e violenti di “Fargo” (il film) e “Non è un paese per vecchi”.
Aggiungeteci l’epica criminale del Padrino, la ricchezza tecnica e il gusto per le citazioni d’autore di Tarantino e le grandi scene d’azione dei maestri western.
C’è questo e altro ancora in “Fargo” (la serie).
Diciamolo subito a gran voce: la seconda stagione sorpassa nettamente la prima per ritmo, carisma dei personaggi e qualità complessiva, assestandosi tra i prodotti migliori di questo 2015 televisivo a dir poco succulento.
I primi episodi lasciavano intravedere solo in parte l’evoluzione della stagione: dal registro investigativo, legato alle indagini sulla sparatoria alla caffetteria e la scomparsa di Rye, si passa al registro gangster, con la guerra di mafia tra la famiglia Gerhardt e il gruppo di Kansas City.
Al centro dei due schieramenti, si stagliano le figure di Floyd Gerhardt e Mike Milligan.
La prima, incurante dei pregiudizi nell’ambiente fortemente maschile – e maschilista – della criminalità organizzata, prende le redini della famiglia, tenendo a bada sia l’imprevedibilità sanguinaria del primogenito Dodd, sia i malumori dell’altro figlio Bear e della nipote Simone, dimostrandosi un leader carismatico e autorevole, fino alla fine.
Milligan (interpretato in modo superbo da Bokeem Woodbine, autentica sorpresa) si rivela uno dei personaggi più affascinanti della serie.
Dotato di modi eleganti ed eloquio forbito, riesce a districarsi tra nemici e alleati, uscendo con le parole da molte situazioni difficili, ma senza disdegnare la violenza quando occorre.
Proprio il suo epilogo, apparentemente da vincente su tutta la linea, lascia più di tutti l’amaro in bocca.
Proprio lui, uomo d’azione e brillante sicario, viene “promosso” a un ruolo che è il più classico dei lavori impiegatizi: rinchiuso in un minuscolo ufficio, 8 ore al giorno più straordinari, confinato a occuparsi di numeri, grafici e rendite.
Come dice con pratico cinismo il suo nuovo capoufficio, “gli anni Settanta sono finiti”: ora il vero Potere (che fa rima con Profitto) non si esercita più in strada, ma nelle sedi delle grandi aziende.
La morale è la stessa di “C’era una volta il West” di Sergio Leone: nel nuovo mondo, tra tecnologia e speculazioni, non c’è più posto per gli eroi della frontiera.
Quanto ai Gerhardt, la loro parabola ricorda quella della casata Stark in Game of Thrones: al potere da generazioni, fortemente radicati sul territorio, e con un grande riguardo all’onore familiare, commettono l’errore di imbarcarsi in una guerra senza possibilità di successo, contro avversari più ricchi, potenti e organizzati.
Alla fine, a dar loro il colpo di grazia è il tradimento di chi consideravano vicino e fidato, l’indiano Hanzee. Anche loro, come Milligan, sono fuori dalla Storia.
La serie sfrutta al massimo le potenzialità di tutti i personaggi, anche quelli più marginali.
È il caso di Karl Weathers, l’avvocato ubriacone e complottista, che ha il suo momento di gloria nella surreale “arringa difensiva” davanti agli uomini di Bear Gerhardt, e ha il merito di salvare Lou e gli altri poliziotti da una sicura carneficina.
O di Betsy Solverson, la moglie malata di Lou, le cui scene portano una ventata di normalità domestica in mezzo a tutto questo sangue.
Il suo sogno con cui si apre il finale di stagione, così anticlimatico dopo il massacro della puntata precedente, è l’occasione per rivedere i personaggi che abbiamo conosciuto nella prima stagione (Molly e Gus, i loro figli, Lou anziano) in uno scenario felice – e anche un colpo al cuore per noi spettatori, perché sappiamo che in quel quadretto di famiglia lei non sarà presente.
Rimangono Lou e lo sceriffo Larson, sconvolti e inorriditi da una spirale di morti troppo vasta per essere compresa, frastornati come un altro rappresentante della legge nato dalla mente dei Coen, lo sceriffo Bell di “Non è un paese per vecchi”.
Hanno avuto salva la vita, ma le cicatrici fisiche e psicologiche di ciò che hanno visto li accompagneranno a vita.
E rimane Peggy, il personaggio più ingenuo e alienato, incapace fino all’ultimo di staccarsi dalle sue vuote fantasie di autorealizzazione e di realizzare le conseguenze delle proprie azioni; chissà, forse proprio per questo, una dei pochi a sopravvivere.
Se la caratterizzazione dei personaggi funziona alla perfezione, il comparto tecnico non è da meno.
L’uso sapiente dello split-screen, i fermo-immagine quasi fumettistici, i primi piani al rallentatore, e l’utilizzo strategico del flashback (splendido, ad esempio, quello su Dodd bambino, già coinvolto nelle attività criminose della famigla).
Un vasto campionario di tecniche che mantiene alta la tensione e il coinvolgimento dello spettatore.
Allo stesso modo, la gestione degli episodi alterna con intelligenza momenti di azione e puntate più rilassate.
L’apice è sicuramente rappresentato dal famigerato “massacro di Sioux Falls”, che rispetta pienamente le attese, degno di essere citato accanto a celebri sparatorie western come quelle di “Il mucchio selvaggio” e “La battaglia di Alamo”.
Perfetta, nella sua versatilità, anche la colonna sonora, che spazia dal progressive allo swing, dal funk all’heavy metal.
L’apertura del settimo episodio, dove le note e i versi di Locomotive Breath dei Jethro Tull accompagnano gli attentati degli uomini dei Gerhardt e di Kansas City, è una delle tante scene memorabili di questa stagione.
Lascia invece spiazzati l’elemento paranormale dell’astronave aliena, che compare nel mezzo dello scontro a fuoco (ma già si era intravista nel primo episodio, con l’investimento di Rye).
Molti l’hanno trovato un deus ex machina fuori luogo; altri, invece, hanno fatto notare come gli U.F.O. siano un elemento ricorrente nell’opera dei Coen, volutamente non spiegato.
Va detto inoltre che nell’America degli anni ’70 ci furono diversi presunti avvistamenti e incontri ravvicinati – il più noto di essi coinvolgeva proprio un agente di polizia del Minnesota nel 1979…
Alla luce di tutto ciò, è meritatissimo il rinnovo da parte di FX: Fargo tornerà nella primavera del 2017, con una terza stagione ambientata di nuovo ai giorni nostri, dopo gli eventi della prima.
Sfoderare un’altra stagione su questo stesso livello non sarà sicuramente un’impresa semplice; ma non sarebbe la prima volta che una serie televisiva ci lascia piacevolmente sorpresi…