Ah, Moffat, ce l’hai fatta un’altra volta.
Quando pensiamo di aver intuito cosa bolle in pentola, e ci siamo creati delle aspettative di conseguenza, lo showrunner che dal 2010 siede nella stanza dei bottoni di Doctor Who sembra proprio divertirsi a cambiare le carte in tavola e sorprenderci.
Ma andiamo con ordine.
Eravamo stati avvertiti a tempo debito: questa stagione sarebbe stata l’ultima con Jenna Coleman nei panni di Clara Oswald, la companion che ha avuto l’impatto più significativo sulla vita (o meglio “sulle vite”) del Dottore.
La consapevolezza del suo addio imminente aleggia come un’ombra sinistra su tutta la stagione (“Before the flood” e “The Zygon Inversion” sono un esempio), e trova compimento nel decimo episodio, “Face the raven”: per salvare l’amico Rigsy da un’ingiusta condanna a morte, Clara escogita un piano per prendere temporaneamente il suo posto, ma le cose non vanno come previsto, e la ragazza muore per davvero… o forse no?
Già, perché stiamo pur sempre parlando del Dottore.
Un uomo che ha dimostrato di non conoscere il significato della parola “resa”, di infischiarsene delle regole che lui stesso ha imposto e si è imposto, e che non si fa problemi a mettere in pericolo l’Universo stesso, se ciò è necessario per salvare chi ama, soprattutto la sua Impossible Girl.
Pur di tenere viva la speranza di salvare Clara, il Dottore è disposto a sopportare anche l’interminabile prigionia del suo “disco di confessione”; pensato per costringerlo a rivelare tutto ciò che sa sulla misteriosa profezia dell‘Ibrido (l’arco narrativo fondamentale della stagione, fin dalla premiere con Davros e i Dalek), diventa invece il portale per arrivare là dove tutto era cominciato, il pianeta dei suoi compatrioti – aguzzini: Gallifrey.
(Breve parentesi su “Heaven Sent“: la recitazione di Peter Capaldi è semplicemente sensazionale per personalità e intensità. Regge la scena da solo alla perfezione, spazzando via qualsiasi residuo dubbio sulle sue capacità come Dottore, e in combinazione con un montaggio ipnotico e una colonna sonora che passa dal claustrofobico all’epico, rende la puntata una delle migliori nella storia decennale del New Doctor Who.)
Ma non basta.
Twelve ricatta i Signori del Tempo, li costringe a sottrarre Clara da una morte che è già avvenuta, ruba un TARDIS, fugge fino agli estremi confini temporali dell’Universo.
Arriva persino a uccidere (pur con l’alibi della rigenerazione della vittima), lui che è contrario alla violenza, come ha mostrato nel memorabile monologo di fronte agli Zygon.
Un comportamento estremamente diverso da quello tenuto da Ten con Rose, per citare la separazione più dolorosa.
Non basta, perché non può bastare. Lui e Clara si sono spinti troppo oltre, fino a diventare proprio loro l’Ibrido temuto dalle profezie di Gallifrey.
L’interpretazione suggerita da Ashildr-Me è la più inaspettata, ma funziona alla perfezione: l’unione di due esemplari appartenenti a due razze guerriere, così simili per carattere e così affiatati, disposti a qualsiasi sforzo per non perdere il proprio insostituibile legame, può davvero mettere a rischio tutto ciò che li circonda.
E sicuramente ha portato il Dottore a snaturare se stesso.
La soluzione può essere una sola: uno dei due dovrà rinunciare all’altro – non solo al presente e al futuro, ma anche al passato, ai ricordi di tutte le avventure vissute insieme.
Il richiamo diretto è all’addio di Donna Noble alla fine della quarta stagione, ma qui al contrario è il Dottore a perdere il ricordo di Clara, non prima di essersi congedato tra le lacrime dalla sua amata compagna di viaggio.
Twelve è di nuovo sulla Terra, con il suo TARDIS, e Clara è solo un nome che persiste nella sua memoria, senza essere associato a un volto; nemmeno quello della cameriera che ha ascoltato la sua storia.
Di lei rimangono le prime e le ultime parole, le più importanti, scritte sulla lavagna del TARDIS come si addice a un’insegnante: “Run, you clever boy. And be a Doctor.”
Tutto perfetto, dunque? In realtà, no.
Ci sono due fondamentali punti deboli in questo finale, che ne abbassano il giudizio complessivo.
Il primo riguarda Gallifrey.
Certo la sua ricomparsa dopo lo speciale del 50esimo è esaltante per ogni fan che si rispetti, ma non possiamo dimenticare che la condizione essenziale era il posizionamento del pianeta in una zona separata e inaccessibile dell’Universo.
Tutti gli eventi di “The Time of the Doctor” e della saga di Trenzalore si basavano su questa premessa.
Invece, scopriamo che Gallifrey si è magicamente “scongelato”, e l’unico commento che viene fatto a riguardo è “Devono aver trovato il modo di tornare, non gli ho chiesto come”. Tutto qui?
Discutibile anche il modo in cui i temutissimi Signori del Tempo si ripresentano sulla scena.
Rassilon, teoricamente una delle creature più potenti e autorevoli mai esistite, viene sbertucciato e spedito in esilio con la coda tra le gambe, e gli alti papaveri della Cittadella per tutta la puntata osservano impotenti e imbarazzati, messi a tacere non solo dal Dottore (che, diciamolo, è un eroe nazionale e se lo può permettere), ma persino da Clara.
Era lecito aspettarsi di meglio.
L’altra pecca riguarda proprio Clara.
Il suo addio era perfetto: commovente, intenso, doloroso come la tradizione di questa serie insegna. E allora perchè quella marcia indietro negli ultimi minuti?
Nonostante tutte le parole sul fatto che la sua morte rappresenti un punto fisso del tempo, con un TARDIS a disposizione può girovagare per l’Universo potenzialmente all’infinito, sfruttando una specie di “bug” temporale.
Uno stratagemma del genere, oltre a sminuire drammaticamente l’importanza della sua dipartita, sembra denotare una mancanza di coraggio di Moffat nel separarsi definitivamente da un personaggio amato dal fandom.
Pare quasi una provocazione dello sceneggiatore: vi siete lamentati per le “ingerenze” di Clara, che si comportava come se fosse lei il Dottore?
Eccovi servita una Clara semi-immortale, con tanto di TARDIS e companion (immortale anch’essa). Difficile immaginare dove porterà questa scelta.
Tolte queste grosse perplessità, è stato un bel finale per una grande stagione, a mio avviso una delle migliori dal reboot del 2005.
La formula dei doppi episodi ha permesso di condensare le storie, rendendole più sviluppate ed evitando filler (con la sola eccezione della francamente pessima “Sleep no more”, a firma di un irriconoscibile Mark Gatiss).
Al centro di tutto, un Dottore di cui abbiamo osservato tutte le possibili sfumature della personalità, comprese le più oscure, negative e contraddittorie; e di cui abbiamo conosciuto una nuova compagna, la chitarra elettrica.
(A onor del vero, ne ha usate almeno due: una Yamaha SVG 800 e una Epiphone G-400.)
Ora, l’appuntamento è a Natale con il consueto episodio natalizio, che vedrà il grande ritorno di River Song.
I ritorni eccellenti non sono una novità in questa serie (basti pensare allo stesso Davros, o al Maestro), ma considerata l’importanza affettiva che ricopre River per il Dottore (e diciamolo, anche per noi fan), la speranza è che possa beneficiare di una scrittura alla sua altezza.
P.S. Gli occhiali sonici hanno avuto il loro perché come trovata estemporanea, ma che bello che sia tornato il cacciavite!