La trasformazione è compiuta. Il Jimmy McGill che si allontana in auto dal parcheggio sulle note di “Smoke On The Water”, un bagliore di determinazione nel suo sguardo che non avevamo mai visto prima, dopo aver rifiutato un’offerta di lavoro che chiunque di noi avrebbe probabilmente accettato a occhi chiusi, non è ancora formalmente Saul Goodman, ma la linea è stata varcata.
Quella sottile linea che il buon Mike Ehrmantraut conosce bene, e descrive alla perfezione al suo “cliente” (un impacciato wannabe-criminal com’era Walter White prima di diventare Heisenberg) nel monologo della nona puntata, uno dei momenti più alti di questa prima stagione: il confine che divide il bene dal male, il giusto dallo sbagliato, non è mai netto e marcato. Si può essere cattivi poliziotti o criminali con onore, si può seguire la propria morale fregandosene della legge o si può usarla come paravento dietro il quale nascondersi per perseguire il proprio interesse soltanto, come hanno fatto i viscidi coniugi Kettleman: ognuno sceglie da che parte stare.
Breaking Bad deve il suo folgorante successo anche alla capacità di sbriciolare le caratterizzazioni stereotipate di personaggi positivi e negativi: nessuno poteva definirsi semplicemente buono o cattivo, tutti avevano personalità e motivazioni profonde e sfaccettate, e gli spettatori erano costretti a interrogarsi in continuazione sulle azioni di personaggi moralmente ambigui. Better Call Saul riprende questa filosofia concentrandola sui suoi due protagonisti, supportata da una sceneggiatura attentissima e paziente e dalla consueta perfezione del reparto tecnico a cui Vince Gilligan e soci ci hanno abituati in questi anni.
Volendo spendere qualche parola in più, ho trovato molte similarità di fondo tra Jimmy e Walt all’inizio della storia. Si tratta di due personaggi senza una morale inflessibile – anche se Jimmy ha sempre avuto un debole per le piccole truffe mentre Walt, fino ai 50 anni, ha complessivamente rigato dritto – e quindi potenzialmente sensibili alla tentazione; soprattutto, pur con le dovute differenze (le capacità da chimico di Heisenberg sono oggettivamente superiori a quelle legali del futuro Saul), due persone a cui viene a mancare la fiducia e la stima di chi avevano di più caro. È questo il vero motore del cambiamento.
Jimmy è visto dal fratello Chuck, il suo modello, ancora come “Slippin’ Jimmy”, un eterno ragazzino che non ha mai voluto impegnarsi nella vita e punta a tirare avanti a scorciatoie e fregature; nonostante abbia dimostrato impegno sul lavoro e voglia di lasciarsi il suo passato turbolento alle spalle (pur concedendosi qualche espediente non dei più puliti, come la geniale messinscena del cartellone pubblicitario e del finto salvataggio dell’operaio), il fratello maggiore continua a guardarlo dall’alto in basso, senza riconoscergli merito e valore. “People don’t change”: Chuck rappresenta proprio quella visione del mondo in bianco e nero, senza sfumature, e anche abbastanza presuntuosa e classista, in antitesi con il topos della serie. Il suo tradimento, boicottando l’aspirazione di Jimmy di trovare un posto nel suo studio, sarà la molla decisiva per convincerlo che, in fin dei conti, la strada della legalità non paga.
Per quanto riguarda Mike, queste dieci puntate ci permettono di conoscere meglio il suo passato e il suo modo di pensare. La tragica vicenda del figlio Matt, poliziotto ucciso da due colleghi corrotti per timore che li denunciasse alle autorità, lo tormenta non tanto per la sua morte in sé, quanto perchè lui gli aveva suggerito di fare “come fanno tutti”, di tenere la bocca chiusa. Per il figlio si tratta di un gesto intollerabile; per Mike invece, fare “la cosa sbagliata”, come girare la testa di fronte a un’ingiustizia e tenersi la propria fetta della torta, diventa il male minore quando pensi alla tua famiglia e al fatto che quel denaro sporco può assicurarle un futuro migliore. Il sesto episodio, “Five-O”, tra i migliori della stagione, mette in mostra tutta l’abilità attoriale di Jonathan Banks: spietato e senza scrupoli all’occorrenza, ma anche capace di sciogliersi in presenza della nuora, rivelando una fragilità che non avevamo colto in Breaking Bad.
Complessivamente, la prima stagione ha confermato quanto di buono le attese della vigilia e le prime puntate avevano lasciato intravedere. Ci ha lievemente illusi, mostrandoci immediatamente una piega criminale che non è stata – ancora – ripresa: questi episodi sono serviti da introduzione e da quadro generale per mettere in scena e soprattutto motivare la nascita della “maschera” di Saul Goodman. Gli autori, lo sappiamo, non hanno paura di rallentare i ritmi, prendendosi tutto il tempo necessario per delineare i profili psicologici dei personaggi e il contesto in cui operano. Paradossalmente, proprio le ultime scene del finale, in cui Jimmy cambia idea sulla sua proposta di lavoro, sono state fin troppo repentine, evidenziando una fretta che stride con il passo riflessivo e compassato tenuto fino a quel momento.
Dal punto di vista tecnico, come già detto la qualità è la stessa, altissima, che ben conosciamo: nessuna inquadratura è casuale, i personaggi minori vengono sfruttati al meglio (introdurre un personaggio eccentrico come Marco, farcelo apprezzare e toglierlo di scena definitivamente nel giro di mezz’ora, onestamente, è qualcosa di cui solo Gilligan sarebbe capace) e il montaggio regala qua e là autentiche perle: la sequenza delle truffe messe in atto di Jimmy e Marco, tutta di primi piani su sfondo nero con sottofondo jazz da gangster-movie anni ’30, da sola vale la puntata.
Per il futuro, dobbiamo probabilmente aspettarci una lenta discesa del protagonista nel mondo della malavita e il suo progressivo avvicinamento, anche “professionale”, a Mike. Qualcuno ha già parlato di Gus Fring, ma forse è ancora troppo prematuro. Staremo a vedere.
A conti fatti, considerando anche le perplessità inaspettate di House Of Cards, Better Call Saul si candida a gran voce come miglior serie drammatica del 2015 televisivo: con l’arrivo dell’estate, vedremo se qualcuno saprà fare di meglio.
Non sarà facile.