Super 8

C’era una volta Spielberg. C’era una volta il cinema anni ’80. Il cinema dei primi anni ’80.

JJ Abrams aveva meno di vent’anni. Io nascevo. Al cinema c’erano Star Wars, I predatori dell’arca perduta, E.T., I Goonies,  Gremlins, Ritorno al futuro… film scritti e diretti dai movie brats (Spielberg, Dante, Lucas, Zemeckis, Donner…). Pellicole che nascevano dalle ceneri del pessimismo e dalla paranoia degli anni ’70, staccandosi di netto dai diktat degli studios, dalle velleità autoriali e da generi ormai moribondi. Opere dirette da giovani che rompevano le regole e ci restituivano un sense of wonder non ancora soffocato dall’effetto speciale a tutti i costi. Spesso grondanti sentimenti, conflitti familiari e generazionali.

Film recuperati dalla mia generazione in VHS riavvolte allo sfinimento, stravisti in tv, mandati quasi a memoria. Poi ci sono quelli che ti rimangono nel cuore per sempre e ancora oggi ti fanno versare una lacrima (tipo quello dell’alieno che vuol telefonare casa).

Passano trent’anni. Si cresce, si passa attraverso l’evoluzione dei gusti del pubblico e del cinema stesso, si sorride ripensando a quei tempi e guardando certe cose di adesso. Arriva la nostalgia. Arriva il tempo del revival. Arrivano gli “allievi” che vogliono omaggiare i “maestri”. Maestri che forse non hanno mai finito di voler essere allievi, o che, come tanti genitori, si sono ritrovati impreparati al momento di salire in cattedra.

E arriva Super 8, come fosse la quadratura del cerchio. Spielberg produce, JJ Abrams scrive e dirige. Un sodalizio intergenerazionale autentico? Un brand? Conta, alla luce del prodotto finito?

Ci sono i ragazzini, c’è la provincia americana, ci sono le biciclette, i genitori con problemi, l’amicizia, l’amore delicato, gli alieni, i militari, i lutti, gli oggetti importanti. C’è ogni singola cosa che c’era una volta.

E quasi il miracolo si compie. La prima parte fa davvero gridare al miracolo. Poi, dal deragliamento del treno, qualcosa deraglia anche nella pellicola. E si lasciano in bozza i personaggi per una corsa alla scena d’effetto, alla grandeur della messa in scena o al mettere ogni tassello al suo posto.

Abrams ha fatto quello che doveva fare e ci mette del suo. Come fosse un remake, aggiorna la materia ai giorni nostri. Non che sia sbagliato: rende però scoperto quello che si sa fin dall’inizio. Ovvero, che stiamo assistendo ad una consapevole rilettura di un modo di fare cinema di un’epoca passata. Non c’è niente di genuino. E il gelato si squaglia tra le mani.

Altro peccato mortale: la colonna sonora. Non è colpa di Michael Giacchino, ma proprio, nel cinema contemporaneo, non le si vuole più lasciare lo spazio di essere davvero uno dei protagonisti. E John Williams resta lontano anni luce.

La differenza tra Super 8 e un Grindhouse o una tarantinata qualsiasi sta solo nella quantità di carne messa al fuoco. Là tanta (troppa?) e spiattellata, qui poca e cesellata. Ma l’effetto è lo stesso: quello del filmino amatoriale della giovinezza proiettato sul muro, ma interpretato da qualcun altro.

Super 8 è un inganno, un’illusione: una finzione che funziona, con i suoi limiti, per un paio d’ore. Come un tuffo nei ricordi, nelle memorie, nel passato. Poi ti svegli e sei di nuovo qui. E vuoi qualcosa che sappia andare oltre, e farti provare le emozioni di una volta, con la stessa intensità, declinate al presente.