C’è a chi piace iniziare una recensione su un film del genere con un profluvio di aggettivi, chi lancia subito il suo giudizio lapidario, chi si perde nel raccontare prima di tutto trame chilometriche e storie produttive.
Beh, per Cloud Atlas metto in atto un bel bypass della solita retorica critica: questo film, di cui tutti gli interessati ormai
Romantico è infatti l’approccio dei tre autori-registi, il tedesco Tom Tykwer e i due arcinoti fratelli Wachowski, in ognuna delle sei storie che compongono l’affresco, e in questo senso i loro finali, lieti o tristi che siano, sono abbastanza illuminanti. Che si tratti di un remoto futuro dove siamo tornati allo stato tribale, o tra un centinaio d’anni, o adesso, o nel passato recente e lontano, il fulcro dei racconti è l’amore (perduto, ritrovato, conquistato). Detta così potrebbe sembrare una banalità sconcertante, ma credetemi, tra le tante più o meno grandi che costellano situazioni e dialoghi di questa opera di 170 minuti, non è la peggiore. I generi
post-apocalittico, storico, thriller, sci-fi distopico, commedia, dramma si fondono e fanno da cornice per trattare temi di fiducia, coraggio, tradimento, passione, sfruttamento, aberrazioni sociali, riscatto… e dire qualcosa in più, che emerge dalla composizione finale, qualcosa che suggerisce che nel nostro universo forse non tutto è casuale e scollegato come ci appare…
La scelta di affidarsi allo stesso gruppo di attori per interpretare ruoli – naturalmente connessi in qualche modo tra loro – nelle
Qualcuno però, più saggio di noi, suggerisce che il tutto sia più delle sue singole parti: ecco perché giudicare il film sulla base dei sei racconti autonomi sarebbe alquanto ingeneroso. E pure anticinematografico, dato che il mezzo è ancora fondato su affabulazione, illusione, fusione di immaginari. In questo Cloud Atlas ha il suo punto di forza: il racconto non perde mai il punto, temi e personaggi sono a fuoco costantemente, il montaggio e le musiche accompagnano lo spettatore all’interno delle vicende in maniera egregia. Questo non si può non riconoscerlo. Magistrale, dunque, la tenuta delle storie e della pellicola. Da questo deriva una frammentazione e una ricchezza di dettagli, rimandi, intersezioni e comunicazioni che richiede qualche visione in più della prima. Per questo ci sarà tempo.
Il fallimento economico per adesso è enorme, come le ambizioni del film, ma non senza un significato. Non voglio attribuire particolari meriti intellettuali agli autori (che pure, scavando tra le righe, hanno inserito dettagli e suggestioni non di poco conto considerando gli standard dei grandi film odierni), ma credo che vada reso un certo rispetto ad un’operazione che avrebbe fatto tremare i polsi a registi considerati intoccabili, i quali probabilmente avrebbero maneggiato con meno cura o equilibrio la materia. Senza fare del fantacinema, diciamo che dallo schermo traspare quanto Tykwer e i Wachowsi credano in quello che stanno raccontando, facendo di loro le persone giuste per raccontare quanto in oggetto.
Piace pensare che opere di questo genere siano in qualche modo necessarie: un film da vedere, da assorbire e poi da giudicare secondo la propria sensibilità. Da parte mia, sento il dovere di promuoverlo: magari in passato sono stato una delle maestranze di Via col vento, chissà…