Cloud Atlas – la recensione

C’è a chi piace iniziare una recensione su un film del genere con un profluvio di aggettivi, chi lancia subito il suo giudizio lapidario, chi si perde nel raccontare prima di tutto trame chilometriche e storie produttive.

Beh, per Cloud Atlas metto in atto un bel bypass della solita retorica critica: questo film, di cui tutti gli interessati ormai MV5BMTczMTgxMjc4NF5BMl5BanBnXkFtZTcwNjM5MTA2OA@@._V1._SY317_ conoscono le notizie, merita di essere valutato sulla base di ciò che lascia nello spettatore. Se vi sembra un approccio poco serio e troppo romantico, lasciatemi spiegare. È indubbio che per un film di tali dimensioni siano importanti il chi e il come. Ma, data la natura dell’operazione, penso fermamente che l’unica cosa che conta nel giudizio – un po’ come dovrebbe essere sempre – sia ciò che può rimanere nel suo pubblico.

Romantico è infatti l’approccio dei tre autori-registi, il tedesco Tom Tykwer e i due arcinoti fratelli Wachowski, in ognuna delle sei storie che compongono l’affresco, e in questo senso i loro finali, lieti o tristi che siano, sono abbastanza illuminanti. Che si tratti di un remoto futuro dove siamo tornati allo stato tribale, o tra un centinaio d’anni, o adesso, o nel passato recente e lontano, il fulcro dei racconti è l’amore (perduto, ritrovato, conquistato). Detta così potrebbe sembrare una banalità sconcertante, ma credetemi, tra le tante più o meno grandi che costellano situazioni e dialoghi di questa opera di 170 minuti, non è la peggiore. I generi
post-apocalittico, storico, thriller, sci-fi distopico, commedia, dramma si fondono e fanno da cornice per trattare temi di fiducia, coraggio, tradimento, passione, sfruttamento, aberrazioni sociali, riscatto… e dire qualcosa in più, che emerge dalla composizione finale, qualcosa che suggerisce che nel nostro universo forse non tutto è casuale e scollegato come ci appare…

cloud-atlas-picture04 I tre autori trattano la materia del libro di David Mitchell, di per sé già abbastanza stravagante e temerario, in modo da plasmarla secondo la propria sensibilità e renderla poi ‘digeribile’ al grande pubblico. In modo tecnicamente eccelso, questo è poco opinabile: per quante critiche si possano fare ai registi, difficile negare il mestiere e la solidità con cui tutto è condotto, non sempre sotto il profilo dell’originalità ma con una competenza e una visionarietà degne di nota.

La scelta di affidarsi allo stesso gruppo di attori per interpretare ruoli – naturalmente connessi in qualche modo tra loro – nelle cloud-atlas-4 varie epoche può essere solo il primo dei grandi argomenti che divideranno in maniera netta gli spettatori. Chi lo vedrà come una scelta di poetica ricca di significato, chi come una mera operazione ruffiana e uno specchietto per le allodole, chi lo troverà superfluo e così via. Per quanto mi riguarda lo trovo un aspetto riuscito e, complice la bravura della maggior parte degli interpreti, non invadente nell’economia dell’opera. Un lavoro sul make-up ottimo, alcune volte esagerato, altre temerario. Se convincente soprattutto nei personaggi interpretati da Tom Hanks e da Halle Berry, non si può non notare come a volte l’esagerazione segue il registro grottesco della storia (Hugh Grant nel 2012 che sembra una mummia) o ci siano aggiustamenti ‘furbi’ per aggirare il problema (a Neo-Seoul nel 2144 gli occhi a mandorla ‘strani’ uniti ad assenza di sopracciglia sono un’ovvia evoluzione genetica…). I cambi di sesso non hanno rilievo né spessore ma sono solo un divertissement, tranne nel caso di Hugo Weaving nel 2012, realmente inquietante (confessiamolo, quante volte abbiamo visto una donna che ci siamo chiesti perché non sia nata uomo e viceversa?).

Cloud-Atlas In sostanza, Cloud Atlas è il film perfetto per discutere ore (giorni, mesi, anni…) senza mai raggiungere un accordo o una valutazione che possa essere generalmente e assolutamente accettata. Ogni scelta presa, ogni registro adottato e messo sullo schermo da Tykwer e da Wachowski possono essere esaltati o distrutti. Quindi un film che troverà naturalmente il suo pubblico, e da altri verrà rifiutato e/o sbeffeggiato. Che poi il successo al botteghino non potesse raggiungere risultati stratosferici doveva essere ampiamente previsto. Cloud Atlas non è un film difficile, tutt’altro, nelle sue tre ore la noia sta alla larga e si raggiungono anche vette emozionanti non trascurabili, ma la morale e la filosofia (spicciola quanto si voglia) che ne sta alla base rischia di essere fraintesa o risultare stucchevole. Magari perché qualcuno l’ha già portata sullo schermo prima, seppure in modo peggiore. Magari perché c’è chi rimane impermeabile alla paccottiglia new-age. Oppure, semplicemente, chi vede la pochezza che nei singoli frammenti che compongono l’affresco.

Qualcuno però, più saggio di noi, suggerisce che il tutto sia più delle sue singole parti: ecco perché giudicare il film sulla base deiJim-Broadbent-in-Cloud-Atlas sei racconti autonomi sarebbe alquanto ingeneroso. E pure anticinematografico, dato che il mezzo è ancora fondato su affabulazione, illusione, fusione di immaginari. In questo Cloud Atlas ha il suo punto di forza: il racconto non perde mai il punto, temi e personaggi sono a fuoco costantemente, il montaggio e le musiche accompagnano lo spettatore all’interno delle vicende in maniera egregia. Questo non si può non riconoscerlo. Magistrale, dunque, la tenuta delle storie e della pellicola. Da questo deriva una frammentazione e una ricchezza di dettagli, rimandi, intersezioni e comunicazioni che richiede qualche visione in più della prima. Per questo ci sarà tempo.

Cloud AtlasIl fallimento economico per adesso è enorme, come le ambizioni del film, ma non senza un significato. Non voglio attribuire particolari meriti intellettuali agli autori (che pure, scavando tra le righe, hanno inserito dettagli e suggestioni non di poco conto considerando gli standard dei grandi film odierni), ma credo che vada reso un certo rispetto ad un’operazione che avrebbe fatto tremare i polsi a registi considerati intoccabili, i quali probabilmente avrebbero maneggiato con meno cura o equilibrio la materia. Senza fare del fantacinema, diciamo che dallo schermo traspare quanto Tykwer e i Wachowsi credano in quello che stanno raccontando, facendo di loro le persone giuste per raccontare quanto in oggetto.

Piace pensare che opere di questo genere siano in qualche modo necessarie: un film da vedere, da assorbire e poi da giudicare secondo la propria sensibilità. Da parte mia, sento il dovere di promuoverlo: magari in passato sono stato una delle maestranze di Via col vento, chissà…