The Man in the High Castle: una Svastica sul Sole

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È chiamata ucronia, o storia controfattuale: prendere un evento cardine della storia umana, ribaltarne l’esito e provare a immaginare gli effetti che ne sarebbero derivati.

Cosa sarebbe accaduto, ad esempio, se Napoleone avesse vinto a Waterloo? O se la guerra di Secessione fosse stata vinta dai Confederati?

Per la relativa “freschezza” temporale e per la vastità delle sue implicazioni, la Seconda Guerra Mondiale è uno degli argomenti preferiti dagli autori ucronici, e in questo solco si inserisce anche “La svastica sul Sole” di Philip K. Dick, il cui titolo originale tradotto è “L’uomo nell’alto castello” – e la nuovissima serie tv che ne è stata tratta, appunto “The Man in the High Castle”.

Scritta da Frank Spotnitz (già tra gli autori di X-Files) e prodotta dagli Amazon Studios, il pilot è stato diffuso a gennaio, ed è rapidamente diventato il più visto dall’inizio del progetto; la stagione completa da dieci episodi è stata quindi rilasciata per intero a novembre, sul modello delle serie originali Netflix.

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Nella sua opera, Dick immagina un mondo in cui Germania e Giappone sono riuscite a sconfiggere gli Alleati, spartendosi il mondo in possedimenti diretti e sfere di influenza, in maniera analoga a quanto hanno fatto Stati Uniti e Unione Sovietica nella realtà.

In particolare, gli ex USA, dove la storia è ambientata, sono andati incontro a una divisione che ricorda a grandi linee le sorti della Germania post-1945: a est, il Grande Reich Nazista, sotto diretto controllo dei tedeschi (il che include campi di concentramento e leggi razziali); a ovest, gli Stati del Pacifico, colonizzati dai giapponesi; in mezzo gli Stati delle Montagne Rocciose, stato-cuscinetto neutrale tra le due superpotenze, formalmente autonomo ma di fatto privo di ordine, strutture statali e autorità.

Tutti i personaggi principali vengono riproposti: Juliana Crain, insegnante di aikido, e il suo fidanzato Frank Frink, operaio che nasconde le proprie origini ebraiche; Nobusuke Tagomi, Ministro del Commercio giapponese di stanza a San Francisco; Rudolph Wegener, spia nazista “ribelle” che si fa passare per un uomo d’affari scandinavo; Ed McCarthy, miglior amico e collega in fabbrica di Frank; e Robert Childan, proprietario di un negozio di oggetti di antiquariato americani (tra cui pistole ancora funzionanti).

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Il camionista italiano (in realtà anch’egli una spia del Reich) Joe Cinnadella, che Juliana incontra nella zona neutrale, diventa Joe Blake, giovane membro della Resistenza ma in realtà al servizio dei nazisti. Il cast è completato dall’Obergruppenführer John Smith, alto ufficiale nazista a New York e mandante di Joe, e dall’Ispettore Kido, capo della polizia militare giapponese a San Francisco.

A muovere le sorti dei protagonisti è una serie di pellicole, intitolate “La Cavalletta non si alzerà più”, contenenti una serie di filmati che mostrano la Storia come è andata realmente: con gli Alleati che vincono la Seconda Guerra Mondiale. Il Reich mira a sequestrare queste pellicole, mentre la Resistenza le cerca per inviarle al proprio presunto leader, l’Uomo nell’Alto Castello, che si dice che sia anche il loro creatore.

Qui sta la differenza cruciale rispetto all’opera originaria.

Nel romanzo di Dick, “La Cavalletta” è un libro cartaceo, e il suo autore, Hawthorne Abendsen (detto “l’Uomo nell’alto castello” per l’abitazione fortificata in cui vive), compare in carne e ossa nel finale; nel corso della trama, permane sempre il dubbio se le vicende trattate siano solo frutto della fantasia dello scrittore, o se invece raffigurino un mondo parallelo, realmente esistente: lo stesso Abendsen, interrogato direttamente, non conferma e non smentisce, alimentando il sospetto.

The Man from the High Castle Amazon Prime Drama

I filmati presenti nella serie, visionati dagli esterrefatti protagonisti, vanno oltre qualsiasi opera di finzione: sono a tutti gli effetti dei “filmati di repertorio” provenienti da un’altra realtà.

Una realtà che si spinge a includere anche Juliana e Frank, mostrati come internati di un lager uccisi da Joe, sullo sfondo di una San Francisco annientata dalla bomba atomica. Da dove arrivano dunque, e soprattutto, chi li ha realizzati?

Altra grossa differenza è l‘I Ching, il libro cinese degli oracoli, utilizzato anche dallo stesso Dick: nel romanzo praticamente tutti i personaggi lo consultano, e più che un oracolo pare quasi assumere i tratti di una coscienza superiore, che predice e orchestra gli eventi; nella serie, è utilizzato dal solo Tagomi e visto più che altro come una tradizione eccentrica, sminuendone di molto l’importanza.

Nel complesso, la serie snellisce e porta avanti la trama del romanzo, costruendola prima intorno alla missione parallela di Juliana e Joe (entrambi in possesso di una copia della “Cavalletta”), e in seguito intorno alle indagini sull’attentato all’erede imperiale giapponese in visita in America.

Puntata dopo puntata, i protagonisti cercano di sopravvivere e di trovare delle risposte, in un mondo che sembra correre all’impazzata verso un nuovo conflitto.

Infatti, nonostante le due superpotenze siano teoricamente alleate e in pace, nello schieramento nazista ci sono dei “falchi” che intendono sfruttare la superiorità bellica per colpire per primi il Giappone e conquistare il resto del mondo; ma ci sono anche ufficiali come Wegener, disposti a tradire il proprio paese pur di contrastare lo spettro di un’altra guerra mondiale.

Va riconosciuto agli sceneggiatori di aver resistito alla tentazione di dipingere gli occupanti stranieri come negativi a tutto tondo.

L’Obergruppenführer Smith e l’ispettore Kido, al netto delle loro manovre subdole e spietate, sono due comandanti coraggiosi, leali, disposti a dare la vita per proteggere la propria patria (e nel caso di Smith, la propria famiglia), e con un forte attaccamento alla pace.

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Dal punto di vista delle caratterizzazioni dei personaggi, c’è un netto divario tra i ruoli diciamo “istituzionali” (Smith, Kido, Tagomi, Wegener), molto più di spessore anche a livello recitativo, e i ruoli d’azione: Juliana, Frank e Joe, tutto sommato, si rivelano personaggi abbastanza stereotipati, la dinamica amorosa “lui+lei+l’altro” che viene a crearsi è del tutto prevedibile, così com’è prevedibile il pentimento di Joe e la sopravvivenza sua e di Frank.

Decisamente mirabile è invece la ricostruzione visiva e storica delle città americane colonizzate: dai palazzi del potere ai dettagli delle insegne naziste, fino ai forni crematori negli ospedali, che ogni settimana eliminano disabili e pazienti psichiatrici, tutto è estremamente curato e credibile, e lascia nello spettatore la straniante sensazione che le cose sarebbero davvero potute andare così.

(Unico particolare che mi fa storcere il naso: il seppuku fu ufficialmente abolito in Giappone già alla fine del XIX Secolo, viene difficile pensare che un ufficiale di alto rango potesse essere costretto a sottoporvisi).

Adattare un libro di Dick, che sia per il grande o il piccolo schermo, non è mai semplice.

La forte enfasi sui processi mentali dei personaggi, le situazioni surreali e paradossali, e il confine mai chiaro tra realtà e illusione, pongono grandi limiti in sede di sceneggiatura.

“La svastica sul Sole” non fa eccezione: la trama è estremamente asciutta, le storyline dei protagonisti paiono fermarsi in una situazione indefinita; lo stesso finale è ambiguo e aperto a ogni interpretazione (l’autore aveva ipotizzato un seguito, che non è mai riuscito a realizzare).

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La serie non cerca una fedeltà impossibile da ottenere.

Parte bene, si perde un po’ per strada ma recupera alla grande con un finale audace e sorprendente: la comparsa dell’anziano Adolf Hitler in persona, che colleziona le pellicole della “Cavalletta” nel suo castello in mezzo alle Alpi lascia intendere che possa essere proprio lui l’uomo al centro del mistero… ma è niente rispetto al colpo di scena finale, con Tagomi che chiude gli occhi su una panchina, e li apre ritrovandosi all’improvviso nella “nostra” San Francisco, tra baseball e hot dog, all’indomani della crisi dei missili a Cuba.

The Man in the High Castle, nonostante una regia un po’ piatta e una recitazione non sempre all’altezza, dà quindi l’impressione di aver espresso solo in parte il proprio potenziale, e di avere ancora molti assi nella manica.

A questo punto speriamo vivamente in un rinnovo: lasciar perdere proprio ora, con tanti spunti da approfondire, sarebbe davvero un’occasione sprecata.