Inizio dalla conclusione: sarà interessante vedere come gli ultrà di Sofia Coppola cercheranno di ‘nobilitare’ ed elevare ad opera d’arte questo film.
The Bling Ring è un onesto e piuttosto inerte spaccato di vita reale (la storia raccontata è un caso di cronaca avvenuto tra il 2008 e il 2009) che affronta sul grande schermo, per l’ennesima volta, l’horror vacui di una generazione. La differenza è nei mezzi e nel fine: social network, google maps, sms, foto e riviste di moda da una parte; furti nelle abitazioni delle celebrities di Hollywood per appropriarsi dello stile delle “star” (se così possiamo definire Paris Hilton, Lindsay Lohan, Rachel Bilson e co.) dall’altra.
C’è poco altro da dire, se non che l’interesse generato attorno a Emma Watson, ottimo veicolo promozionale per la pellicola e per i nerd #TeamHermione, è assolutamente ingiustificato. Certo, nel lotto della pessima recitazione di tutti (peraltro giustificata in sede di idiozia diffusa dei personaggi) Emma è sopra di ben più di una spanna, e non a caso le viene affidato il personaggio più infido e antipatico, disturbante nella sua inconsapevole capacità di inorridire ogni singola mente al di sopra dell’annullamento pop-tv-adolescenziale.
Il film della Coppola FIGLIA impallidisce di fronte a una cosa come Spring Breakers, dove la perdizione di una generazione rimbambita dal nulla e riempita di desideri troppo grandi in corpi troppo piccoli viene affrontata, seppure in modo discutibile, in una rarefazione che trasfigura la realtà (senza l’alibi dell’ormai abusato e noioso ‘tratto da una storia vera’) e satura colori, umori, sensazioni, dilatazioni di tempo, creando volutamente una noia spalmata su una bugia spacciata per stile di vita senza vie di scampo; mentre in Bling Ring, la noia passa da colori tenui, fotografia anni ’90, interni curatissimi, ville da capogiro, lusso odioso e una totale assenza di interesse per la storia che ci viene raccontata. Lo “Spring break… forever” come stato mentale si sublima in una sequela di “wow” e “oh my god” per borse e scarpe che si fanno sempre più stanchi, fastidiosi. E se anche questo
Tanto è vero che l’inevitabile, fastidioso processo ci viene risparmiato, risolto in un colpo di martelletto del giudice cattivo. Lo sguardo registico (e di scrittura) si ferma alla pura contemplazione e descrizione di qualcosa che possiamo vedere con i nostri occhi, sui nostri monitor, sulla tv. Troppo poco.
Per queste storie non serve il cinema. Basta (purtroppo) tutto il resto.