The Amazing Spider-man, la recensione!

The amazing Spiderman non è brutto. Peggio. E’ allarmante. E’ il segnale che i cinecomics stanno tornando indietro.

E’ a modo suo un perfetto contraltare a The Avengers. Qualcosa si è rotto nel meccanismo di progressione della valorizzazione del fumetto al cinema, se persino il supereroe più amato che ci sia viene fatto rifugiare in una serie b low cost per rastrellare ancora più soldi. Un reboot necessario per riallacciare i rapporti con l’universo Marvel definito da Ironman e soci? Può darsi, ma ciò non giova al mito dell’arrampicamuri e neppure alla sua versione ultimate (ormai, i lettori del fumetto lo sanno, nemmeno più così ultimate…) oggetto di una regressione, di una twilightizzazione: più primi piani, meno azione, tirare al risparmio e pedalare sull’adolescenzialismo d’accatto.

Male: tutto troppo superficiale, sgonfiato dal pathos (vogliamo parlare di zio Ben e della sua dipartita?), urlato in faccia allo spettatore, spiegato due volte per esser chiari anche a chi sta amoreggiando in ultima fila, semplificato in maniera offensiva. [Vien voglia di fermare il progresso se una serratura elettronica touchscreen si riduce a una combinazione da imparare a memoria: miliardi per cosa…?]

E sebbene i tentativi di omaggiare in modo abbastanza aderente il fumetto sia più o meno lodevole (la rivelazione prematura alla fidanzatina, sulla carta MJ, l’assalto alla scuola, là era Goblin-Osborn) piange il cuore a vedere coinvolto nella sceneggiatura il decano Alvin Sargent, penna miracolosa del cinecomic più bello di sempre, Spiderman 2. In compenso il responsabile principale dello script, James Vanderbilt, dopo Zodiac fa un passo indietro di anni luce e coi soldi della sua facoltosa famiglia dovrebbe tornare a studiare come si scrive una storia non dico credibile, ma almeno senza una cazzata beota ogni cinque minuti.

Bravi i giovani interpreti, un po’ meno il cast adulto, non sempre per colpa sua: ad esempio Rhys Ifans, con un Lizard senza empatia e legami veri col protagonista, tratteggiato con la ghigliottina e triturato da una computer grafica da fischi dal loggione, può fare poco. Stesso dicasi per l’azzimato Denis Leary, un George Stacy col carisma sotto il distintivo, sgrezzato in due scene e mai, mai, mai e poi mai all’altezza della figura del vecchio (e vero, ed eroico) “gigante di ferro” – altro padre di Peter Parker.
Se shakeriamo tutto con una regia anonima che nei momenti migliori scimmiotta Raimi, la frittata è fatta.
Successo al botteghino, insuccesso sotto tutti gli altri fronti, e nubi nere all’orizzonte.