Ghost Rider 2: Spirito di Vendetta

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Lo dico subito a scanso di equivoci, io ho adorato il personaggio di Ghost Rider. Ho amato alla follia tutti i Raiders e le loro incarnazioni: Carter Slade, Johnny Blaze, Danny Ketch e Michael Badilino. All’uscita del primo film sul personaggio nemmeno la presenza di Nicholas Cage nel ruolo principale mi ha fatto desistere dal correre a vederlo e lo stupro cinematografico del personaggio non mi ha impedito di presenziare alla visione di questo secondo capitolo. Certo c’è sempre Nicholas Cage (cui l’unica qualità sembra quella di riuscire a sfoggiare una pettinatura sempre più improbabile a ogni nuovo film), certo c’è lo spettro incombente di una trama dalla fragilità narrativa quasi imbarazzante, ma ci sono Mark Neveldine e Brian Taylor alla regia e questi due signori hanno girato Crank, qualcosa si dovrà pur salvare. E infatti qualcosa si salva.
Dopo questa amabile apertura che ha salvato chi scrive dalla “Sindrome da Foglio Bianco” che lo aveva afflitto, andiamo tutti insieme a vedere come si presenta questo Ghost Rider 2: Spirito di Vendetta.
Il passaggio di testimone nella regia dall’uomo più privo di talento della storia del cinema Mark Steven Johnson ai ben più estroversi e dinamici Mark Neveldine e Brian Taylor da subito l’idea di essere di fronte a un prodotto diverso, quanto meno nella forma visiva se non nella sostanza della storia.
Storia sviluppata da David S. Goyer e ambientata in una zona non meglio precisata dell’Europa Orientale dove una continua presenza di paesini, cave, miniere, cantieri, monasteri e strade deserte danno la sensazione astratta, seppure spesso e volentieri alcuni elementi suggeriscano una produzione che deve far fronte alla mancanza di svanziche. Come già detto in precedenza il plot narrativo scricchiola quando va bene e sa di già visto e rivisto quando va male, forse a causa di questo, nel tentativo di aggirare questa pochezza narrativa, i due registi hanno infarcito tutta la pellicola di scene e inquadrature acrobatiche che tuttavia non riescono mai a convincere del tutto (d’altronde non tutti si chiamano Boyle).
Spostando l’attenzione al cast poi si ha l’impressione che i produttori si siano improvvisamente ricordati che avevano necessità di attori e siano scesi in strada a prendere i primi dispobibili. V’è sicuramente da dire che i personaggi sono stati tratteggiati con un pressapochismo epocale , stendendo un velo pietoso su Cage, una Violante Placido così ce la potevano risparmiare, e potevano risparmiarci un Ciaràn Hinds nel ruolo di un cattivo così stereotipato che fa passare per geniale il tratteggio del Dottor Zero. Uniche luci nelle tenebre di questa “compagnia dell’oratorio” risultano essere Idris Elba che – nonostante tutto – crede nel suo ruolo e riesce a renderlo tridimensionale e un Johnny Whitworth che raggiunge un sei pieno nella seconda parte del film, ovvero nel ruolo di Black-out.
Dunque cosa si salva di questo secondo capitolo del motociclista fiammeggiante se quello detto fino a ora è fuffa? Si salva sicuramente la fotografia di Brandon Trost che sa regalarci un’atmosfera mefistofelica a metà tra un 8mm e un film classico e si salva la rappresentazione dello stesso Ghost Rider che non esito a definire entusiasmante.
Il nostro Ghost infatti, per questa pellicola, smette di essere semplicemente un motociclista con un teschio fiammeggiante al posto del capo e comincia a moversi e agire come la creatura soprannaturale qual è. Il suo modo di spostarsi quando non cavalca il suo chopper ricorda molto quello di Samara Morgan di The Ring, piuttosto che quello di un essere umano e tutto nelle sue movenze suggerisce qualcosa di ultraterreno e in cui è difficile per lo spettatore immedesimarsi.
Ci sono poi numerose citazioni per i marvel zombie più puri e riferimenti inerenti proprio alla saga del secondo Ghost (dal nome del bambino, al villain, allo stesso sottotitolo etc.) ma per concludere si può dire che se il primo capitolo dedicato al motociclista infernale era un Glam Rock suonato in un garage, questo secondo episodio è una canzone dei The Cure suonata da una cover band poco dotata.
Il risultato c’è solo a prima vista e solo se siete fans sfegatati del personaggio.