Un uomo allontanato dalla propria famiglia, privato della libertà, dovrà mettersi alla prova per riconquistare ciò che ha perduto. Gloria e fama lo attendono. Il tutto sotto lo sguardo vigile di un pubblico sadico, impaziente di vedere se il loro eroe riuscirà ancora una volta a sopravvivere alla carneficina, a superare un altro round. Non male come premessa… se non fosse per le molte (anche troppe) similitudini col pluri-premio Oscar “Il Gladiatore“. Già, la trama manca di originalità e si nota davvero molto. Ma andiamo a sviscerarla in modo da motivare queste critiche iniziali (le quali rappresentano solo un antipasto di un menù che è tutto fuorchè leggero).
La trama
La storia è ambientata nell’anno 2034. La simbiosi tra umani e tecnologia si fa sempre più forte e per la prima volta l’uomo diventa parte integrante della macchina. Ken Castle (Michael C.Hall, Six feet Under & Dexter), un noto produttore di videogiochi, lancia sul mercato un prodotto innovativo che cambia letteralmente il concetto di videogioco: Society. In questo gioco i vari personaggi che lo popolano sono proprio degli esseri umani. Persone che volontariamente possono decidere se comandare il gioco o se essere comandate, spogliate della propria personalità e divenire gli avatar dei giocatori a casa (il tutto grazie ad un dispositivo che viene impiantato nel cervello e consente la connesione). Dopo aver visto l’enorme successo prodotto, Castle non si ferma e porta alla luce una nuova creazione: Slayers. Il principio è lo stesso utilizzato per Society, ma questa volta in gioco c’è la libertà. Viene offerta la possibilità ai carcerati condannati a morte di poter scegliere un’alternativa alla sedia elettrica. Trenta rounds a disposizione, un campo di battaglia e un obiettivo da raggiungere sani e salvi, schivando i proiettili e uccidendo coloro che ostacolano il percorso. John “Kable” Tillman (Gerard Butler, 300) è l’unico detenuto che è sopravvisuto a ben ventisette rounds, il ché gli ha conferito prestigio, fama ed ammirazione da parte degli spettatori. La sua sopravvivenza è dovuta soprattutto all’abilità di gioco del suo gamer, il diciassettenne Simon Silverton (Logan Lerman, Percy Jackson e gli dei dell’olimpo: il ladro di fulmini) membro di una ricca famiglia (come tutti i giocatori del resto, visto che per giocare bisogna investire un’ingente somma di denaro). Entrambi sono a conoscenza però, che il sistema di controllo è affetto da un deficit, il che complica non poco le cose. Solo tre livelli separano uno dalla conquista della libertà e l’altro dal prestigio di aver finito un gioco di tale popolarità e difficoltà. Ma dietro a tutto questo c’è dell’altro? Cosa nasconde Castle con il suo sorriso compiaciuto e quasi psicotico mentre osserva il suo show?
Come precedentemente annunciato, la trama non è delle più originali. Inoltre, dalle prime scene della pellicola, diretta da Mark Neveldine e Brian Taylor, sembra quasi di vedere Russel Crowe (vista l’apparente somiglianza con Butler) che al posto del gladio si ritrova ad imbracciare un’arma di tutt’altra epoca. Altra nota dolente riguarda le interpretazioni, a mio parere non esaltanti, avrebbero potuto (dovuto) fare molto meglio tutti quanti. Assolutamente da bocciare la scelta dell’inserimento nel cast di Kyra Sedgwick (The closer) alias Gina Parker Smith, presentatrice dello show che mostra in anteprima Slayers. Non metto in dubbio le sue doti di recitazione, ma nel contesto mi è sembrata totalmente fuori luogo. Per quanto riguarda il resto, si passa da un Kable mono espressivo ad un Castle che rappresenta l’esaltazione dello stereotipo dell’antagonista, buttando qua e là quei sorrisi da psicotico che fanno tanto cattivo vecchio stile. Rimanendo in tema di stereotipi, come non citare la madre di tutti i luoghi comuni, riguardante i videogiocatori, che viene così rappresentata: il classico tipo sovrappeso che non esce mai di casa (da notare anche le finestre rigorosamente chiuse in modo tale da non lasciar trapelare neanche uno spiraglio di luce, eliminando ogni contatto esterno) non facendo altro che mangiare e rimanere con lo sguardo fisso sullo schermo. Bisogna spendere due parole anche riguardo a Society. E’ praticamente uguale a Second Life, un mondo in cui tutto è permesso, in cui sesso e sballo sono ordinaria amministrazione. L’unica differenza sta appunto nella modalità di partecipazione al gioco: scegliere se essere il burattino o il burattinaio.
E’ strano, ma alcune cose si salvano. L’introduzione è abbastanza coinvolgente: mentre appaiono i primi titoli, una lugubre ed affascinante “Sweet Dreams“, interpretata dal Reverendo (Marylin Manson), ci introduce nel campo di battaglia. Il rumore dei proiettili, le esplosioni, il cambio repentino delle inquadrature creano un’atmosfera adrenalitica tipica di alcuni giochi come “Call of Duty” o “Gears of War“. Come nella migliore tradizione degli sparatutto, in alcune scene viene proposta la visuale in soggettiva, nella quale sono visibili le uccisioni effettuate e la distanza mancante al raggiungimento dell’obiettivo. Certo che dopo un inizio del genere deludere le aspettative sembrava essere ardua impresa, ma la realtà si è rivelata ben altra. Fortunatamente ce la caviamo con novanta minuti circa, anche se il prezzo del biglietto ci fa rimpiangere il tanto amato satellite.
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