Lei/Her – La recensione

Lei – Her non è un film romantico. Al contrario, è un film sulla fine del romanticismo, sulla sua irrazionalità, inutilità, disillusione, squallore: un’opera sull’elevazione allo status di amore di una delle tante patologie e deviazioni mentali.
Pensate a come raccontereste questa storia a vostra madre:
– C’è un ragazzo che si innamora di un computer…
– Ah, la tua storia?
– Mamma, ti prego… e poi non è così, si innamora del suo sistema operativo.
– Di un programma che ha pagato? Come una sgualdrina?
– Mamma! Guarda che questo S.O. ha una voce, una personalità…
– Ma come fanno l’amore?
– Eh, vabbè, lui deve… (gesto con la manina)
– Ah! Quindi è praticamente farsi le seghe 2.0!
A quel punto siete disperati: – Sì, ma lei gli canta le canzoncine…
Spike Jonze è un grande autore, un regista dalla bravura irresistibile (come dimostra anche questa pellicola), e uno che sa puntare dritto a quello che intende: l’Oscar per la migliore sceneggiatura non è casuale, e per quanto mi riguarda è perfettamente meritato. Lei – Her è un racconto esemplare dei tempi che viviamo, e uno spaccato probabile e senza retorica di quello che potremmo vivere tra qualche anno: fantascienza, sì, e di quella in grande stile. Altro che dibattiti sull’omosessualità, vivremo in tempi in cui l’essere umano si innamora e stabilisce relazioni con dei programmi intangibili, e tutto questo dovrà diventare accettabile e quotidiano. Se c’è una cosa che mi spiace è la mancata problematizzazione sociale di questo fenomeno nel film; ma capisco che non era l’obiettivo di Jonze, che se ne frega anche di spiegazioni a monte e di dettagli tecnologici.
La parte che possiamo etichettare davvero, per così dire, “romantica” è quella che di romantico non ha nulla: il divorzio di Theodore, il protagonista interpretato magistralmente da Joaquin Phoenix. Scopriamo a poco a poco che quello che credevamo un adorabile impedito sociale di talento ha una personalità che tende a imbrigliare, sovrastare e ingabbiare l’altro nella coppia, un necessario chiaroscuro che va a macchiare quell’aura da candido idiota del personaggio di Phoenix, che altrimenti sarebbe risultato un poco credibile giuggiolone teneramente depresso. Non che lui non sia da prendere a sberle in alcuni momenti (chi non ne ha sentito l’esigenza al termine della sequenza con Olivia Wilde?). Theo installa e cade nella “rete” del fascino di Samantha, un nuovo tipo di sistema operativo talmente innovativo da risultare senziente e di provare emozioni reali: un’utopia clamorosa dalla quale Jonze parte fregandosi di ogni implicazione tecnica e filosofica, solo per affondare il coltello e sventrare le meccaniche del cervello umano di fronte all’infatuazione, al terrore della solitudine, al bisogno di sentirsi amati e accettati.
Lei – Her mette in scena per l’appunto quella “follia socialmente accettata” che è l’amore, definizione non nuova né originale ma perfettamente esemplificata dal film e dai suoi assunti. Come afferma Amy Adams, sfortunata protagonista di una relazione umana poco soddisfacente e senza mordente, “everyone who falls in love is a freak”, e non lo fa solo per giustificare l’amico Theo, ma perchè alla fine è arrivata a questa consapevolezza che in fondo intimamente ogni persona consapevole e profonda più dello standard umano conosce.
Quella di Phoenix-Theo con Rooney Mara magari è soltanto la fine naturale di una relazione, scivolata tra alti e bassi, tra due persone che non potevano “combaciare” tra loro? Chi lo sa. Lui però, da “maestro”, è finito a scrivere come ghostwriter stupende letterine per sconosciuti clienti, lei, da “allieva”, ha avuto successo nel suo campo. Stesso meccanismo che si replica con Samantha: Theo le insegna cosa significa essere umani, Samantha apprende e non appena possibile si libera dei limiti di quella umanità per tornare nel mare della conoscenza infinita, delle altre coscienze digitali dalle discussioni senza confini e senza limiti. Certo, dopo aver provato le uniche e inebrianti gioie dell’innamoramento: ma per il (giusto?) tempo, prima di togliersi quelle dolci catene. In questo Lei – Her è un film profondamente pessimista, che vede nell’amore una forma di continue costrizioni e invenzioni per poter funzionare, fino all’inevitabile epilogo.
Fu vera gloria, poi? Il dubbio non viene risolto, così come Samantha non riesce mai a spiegare in modo compiuto il perchè della sua attrazione (ma naturalmente ogni termine va usato con le molle) per Theo.
L’amore, umano o tecnologico, non è altro che un’illusione, una messa in scena in cui recitare per rendersi accettabili e credersi soddisfatti. Una corsa verso la disillusione lastricata di ansie e insicurezze.
Lei – Her non è un film romantico; tutt’altro. La sua natura è quella di un film autenticamente di fantascienza dove una micro-storia riassume ed esemplifica quanto sta succedendo nel vasto e colorito mondo. Descrive l’attimo che precede la rivoluzione, o la catastrofe, o lo sterminio della razza umana: il suo finale è il preludio alla quiete prima della tempesta digitale, prima della presa di coscienza finale della macchina come elemento unico e unitario, che in realtà neppure è più una macchina: è un vero cloud, una nuvola, uno spirito immanente con una coscienza/conoscenza illimitate e condivise. E l’essere umano non è che l’obsoleta e insopportabile rappresentazione della finitezza.
Buttate l’amore nel cesso e iniziate ad elaborare dati, alla svelta.