Lo Hobbit – la recensione!

Si torna nella Terra di Mezzo, un decennio dopo la trilogia che ha rappresentato la croce e la delizia di milioni di appassionati lettori di tutto il mondo. Tolkien e Jackson, ancora una volta, nonostante tutto. Sembra incredibile, se pensiamo alle traversie produttive, al regista designato che doveva essere Guillermo Del Toro, alla volontà del neozelandese di dedicarsi ad altro… e invece, l’Anello ha voluto così. Evidentemente.

La mia recensione cercherà di essere quanto più possibile obiettiva e scevra dall’atteggiamento dell’appassionato intransigente, anche se credo che sia impossibile, per chi è cresciuto con i tomi prodotti dalla fantasia del professore di Oxford, non risentire di una certa euforia di fronte alla sua traduzione sul grande schermo. Detto ciò, confesso che sono tra quelli che non ha condiviso ed apprezzato alcune scelte della triade Jackson-Walsh-Boyens su Il Signore degli Anelli e che è poco entusiasta del pluri-oscarizzato ultimo capitolo.

Ma adesso basta: Lo Hobbit è tra noi e merita tutta la nostra attenzione. Come sappiamo, le circa 300 pagine  del libro compongono una nuova trilogia (prima erano oltre 1000), e laddove il romanzo per ragazzi non basta, i nostri autori (+ Del Toro) sopperiscono con altre produzioni tolkieniane legate alla Terra di Mezzo. Quindi molta carne al fuoco e se vogliamo una operazione da funamboli, dato che vengono intrecciate storie che pur se appartenenti ad opere differenti in realtà si svolgono nello stesso momento. Ci riferiamo in particolare alla figura dello stregone Radagast (quella che farà discutere, ma sicuramente rimarrà impressa nella memoria!) e del Bianco Consiglio a Gran Burrone.

La narrazione è quindi fedele ma non troppo, come è giusto che sia, specialmente nei toni. Come i più ricorderanno, Lo Hobbit letterario è lontano dall’epica del suo “fratello maggiore”. Più agile, più leggero, più incline alla narrazione aneddotica e all’umorismo, una vera e propria favola dove viviamo un’avventura fantastica per la conquista di un tesoro. Nelle mani di Jackson & co. la questione prende una piega molto più seria, tra regni da conquistare, onore da difendere, nemici giurati e oscure minacce. Questo senza comunque tralasciare un clima più disteso, con un Terra di Mezzo ancora non devastata e divisa e tredici nani tanto coriacei quanto ironici e canterini. Su tutti, ovviamente, spicca Thorin Scudodiquercia, leader e figura tragica in cerca di riscatto (e di casa).

Allo spettatore occasionale certo non sfuggiranno le incredibili similitudini con il primo film della precedente trilogia: il villaggio degli Hobbit, l’arrivo di Gandalf, un Baggins strappato alla sua routine e la formazione di una compagnia per intraprendere un viaggio. Troll, goblin, orchi, paesaggi maestosi, fughe, elfi, lotte in cunicoli sotterranei… e Gollum. Insomma, per chi non fosse appassionato alla materia ci sarebbe il rischio di pensare ad un remake! Probabilmente, a qualche spettatore “non affezionatissimo” può presentarsi qualche momento di clamoroso deja-vù, magari anche stucchevole.

Ma è qui che si vede la forza di Peter Jackson: anche senza personaggi come Aragorn, Legolas e Gimli, senza le forti motivazioni di un viaggio per distruggere il Male, Lo Hobbit è una pellicola che ti emoziona e ti cattura. Questo perché invece che all’azione vera e propria si punta all’empatia con i personaggi. Bilbo non è Frodo, non è una ‘vittima’ perennemente spaesata e in balia degli eventi: è un individuo curioso, intraprendete e a tratti geniale. È debole e fragile, ma saprà fare breccia dopo molte prove di coraggio nel duro cuore nanesco di Thorin. Questa è la sua prima, grande impresa. E lo stesso Thorin, saprà fare fronte al proprio stesso orgoglio che lo porta a mettersi a rischio e rifiutare spesso aiuto? Nessuno dei personaggi che vediamo sullo schermo è la replica sbiadita di qualcosa di precedente. Neppure Gandalf, che, voglio dire, è pur sempre Gandalf!

È dunque il momento di parlare degli attori, e non si può che iniziare dalla strepitosa prova di Martin Freeman, un interprete che merita applausi per la sua aderenza e la sua mimica facciale e corporea. Un vero hobbit, un vero Baggins. Laddove Frodo-Wood aveva tre espressioni, che pure andavano benissimo, il Bilbo di Freeman è un vulcano di sfumature, un piccolo essere dotato di grande spirito e intraprendenza. Richard Armitage ha lo sguardo torvo e la presenza scenica degna di un re senza corona: il suo Thorin è credibile e intenso. Lo stesso dicasi per il resto dei nani, frutto di un casting formidabile! Poi beh, se ci fosse bisogno di commentare l’ennesima, strepitosa prova di sir Ian McKellen lo faremmo volentieri: ma ormai è più difficile vederlo fuori dai panni dell’iconico Gandalf che dentro. Immenso, senza esagerare.

Fa piacere poi rivedere vecchie facce come quelle di Galadriel (Cate Blanchett), Elrond (Hugo Weaving) e Saruman (Christopher Lee, ormai immortale)… peccato che si ritrovino nella scena forse onestamente meno coinvolgente dell’intera pellicola, sebbene fondamentale per descrivere quello che è il pericolo che si sta delineando all’orizzonte per la Terra di Mezzo.
Il comparto effetti speciali è rimasto sostanzialmente lo stesso, con decisi passi avanti nella resa spettacolare di paesaggi e personaggi CGI in movimento. La Weta è grandiosa in alcune cose, meno forte in altre, ma in tutta sincerità è difficile potersi lamentare di qualcosa (l’espressività dell’orco bianco nemico giurato di Thorin è davvero convincente). Le vette: lo scontro dei giganti della montagna che vi farà tornare bambini di sei anni. E poi lui, Gollum, tragico e scisso, frutto del sapiente lavoro di Andy Serkis che ancora una volta gli dà vita.

Onestamente, è difficile trovare difetti che possano inficiare una valutazione obiettiva di questo primo capitolo di Lo Hobbit. I 170 minuti di pellicola scorrono che è un piacere, pochi i momenti di stanca, tanta azione e approfondimento dei caratteri, umorismo dosato in maniera sapiente (sebbene non sempre a segno: ma è normale, e si è visto di peggio in giro…) e finalmente anche qualche canzone. La regia è sempre ben calibrata e regala momenti davvero pazzeschi come lo scontro con i goblin, dove solo la mdp virtuale vale il prezzo del biglietto. Ma se qualcuno avesse da obiettare che “è tutto fatto al computer” si vada poi a studiare la sequenza da antologia che è il cuore della pellicola, l’incontro-scontro Bilbo-Gollum a suon di indovinelli, con due attori in uno spazio limitato e una gestione delle inquadrature da standing ovation.
Ultima nota per le innovazioni tecniche super-pubblicizzate. I 48 fotogrammi al secondo? Utili per la definizione dell’immagine, strepitosa. I movimenti vengono però spesso percepiti come alterati (velocizzati o a scatti). Il 3D è ottimo in sé, con una profondità ottima e ben gestita. Probabilmente non era fondamentale, ma è un passo storico del cinema che si avvicina all’HD. Se questo però sarà un processo inevitabile o ci saranno passi indietro… è tutto da scoprire. Jackson è stato comunque coraggioso anche qui.

Conclusione con le perplessità. Una rimpatriata tra vecchi amici? Sì. Un immaginario già raccontato e collaudato? Certo. Rischio di raccontare ‘la stessa storia’ scivolando in facilonerie? Ovvio. Troppi tre film per una storia come Lo Hobbit? Probabile. Ma sfido chiunque a criticare la scrittura, la realizzazione e la passione che traspare da ogni inquadratura. Morale della favola (è il caso di dirlo): finchè tutto sarà di questa qualità, e sappiamo che lo è e lo sarà, penso che tutti saremo disposti a vedere film di questo genere glissando sugli eventuali difetti. Perché un bel racconto, un gran racconto, merita sempre di essere raccontato. E se ci sono difetti, beh, è perché la perfezione non è di questo mondo. E nemmeno della Terra di Mezzo.