Hugo Cabret – la recensione

Hugo Cabret è Martin Scorsese. Non c’è altra soluzione se non ricondurre tutto alla banale identificazione nel personaggio da parte dell’autore se si vuole dare un senso all’ultima opera del cineasta di New York.

E la spiegazione sta tutta lì, sullo schermo, addirittura squadernata dai personaggi: ognuno ha il suo scopo nella vita, che funziona come un orologio: se un meccanismo si rompe, in qualche modo, deve essere riparato. Ed ecco che arriva Hugo-Martin. Attraverso la favola (parabola?) del piccolo orfano che cerca di trovare un senso alla sua vita (e ad una perdita) e con quello ne trova un altro (e una rinascita) si possono riconoscere facilmente le motivazioni che hanno spinto Scorsese a trasporre per il grande schermo il lavoro letterario-illustrato di Brian Selznick.

Da storico e cultore del cinema, autore di importanti recuperi di pellicole dimenticate o bisognose di restauro, il regista ha trovato nella vicenda del giovane Hugo, che vive di espedienti riparando gli orologi della stazione ferroviaria di Parigi, la summa del suo pensiero-azione. Scorsese vuole aggiustare la memoria: la nostra memoria. Ricordarci l’amore per un cinema che non esiste più e che rischia di perdersi, svanire, evaporare. Allora, negli anni ’30 del Novecento, come adesso.

Prendendosi poche libertà dal testo di origine e plasmando la materia a sua immagine, il cineasta e la sua solita, fidatissima squadra di collaboratori partono da uno spunto fantastico-avventuroso e ne ricavano un grande discorso sull’arte cinematografica, sulla storia e sul riscatto personale. Mai come in questo caso la logora espressione “atto d’amore verso…” potrebbe essere utilizzata a proposito.

Le parti più emozionanti non sono certo quelle dedicate a Hugo (anzi, tutt’altro): Scorsese mette in campo tutta la sua abilità, la sua raffinatezza e il suo entusiasmo nel mettere in scena la storia di Georges Méliès, il secondo padre del cinema dopo i fratelli Lumière, l’uomo che ha inventato il montaggio e gli effetti speciali, l’illusionista di professione che portò sullo schermo i sogni degli spettatori di fine Ottocento. E che visse sulla sua pelle quello che oggi tutti ben conosciamo, l’invecchiamento precoce delle tecnologie e i gusti capricciosi del pubblico. Un uomo, geniale quanto poco accorto sul versante degli affari, che finì in disgrazia nonostante millecinquecento film diretti in poco meno di 15 anni a causa del mondo che stava cambiando.

Qui Martin Scorsese ritorna fanciullo e dirige lui stesso i film di Méliès: le scenografie “tridimensionali”, a più livelli, messe in piedi per ospitare attori, ballerini, sagome e mostri di cartone; le sovraimpressioni, gli stacchi nelle riprese, le illusioni ottiche, le esplosioni. Lo studio-casa di vetro del pioniere francese diventa il parco giochi dell’americano più europeo che ci sia.

E poi si torna alla storia principale: un bambino che vuole ostinatamente trovare un messaggio del padre, il cui simulacro è un automa-scrittore, guarda caso realizzato dal giocattolaio-regista traumatizzato dal passato. L’incontro con la di lui figlioccia, lettrice compulsiva, la soluzione dell’enigma con la chiave-cuore. Tutto torna, tutto ha un senso, tutto è perfettamente circolare. L’avventura più grande di Hugo, però, è la costante fuga dall’inflessibile ispettore ferroviario. Alla fine, invece di conquistare l’amata, trovare un tesoro, punire i cattivi o conquistare un regno, Hugo fa rivalutare dalla nascente critica cinematografica Georges Méliès con un ventennio di ritardo. Un regista fortunato: rivalutato quando ancora era in vita.

Personalmente non posso esprimere un giudizio obiettivo su Hugo Cabret: sono troppo “dentro la materia” per capire quanto uno spettatore a digiuno di storia di cinema possa recepire e ritenere interessante la vicenda narrata. Se Scorsese avesse raggiunto il suo obiettivo non avrebbe neppure più senso pensare a Méliès come una persona realmente esistita. Lì, sullo schermo, il suo personaggio sarebbe più che sufficiente.

Il film, in sé, rimane un’opera ingiudicabile: forse troppo maturo e “colto” per bambini e ragazzi, troppo schematico, stucchevole e vacuo per gli adulti e il pubblico indifferenziato. Resta quella “zona grigia”, di cui possono far parte eccezioni di tutte le età; coloro che emotivamente, artisticamente o anche solo ingenuamente sanno lasciarsi trasportare dalla potenza di un racconto che crede fermamente in se stesso. Come deve fare, per esistere, ogni favola che si rispetti.

P.S. Ah, è in 3D. Ottimamente realizzato e con ovvi movimenti di “mdp” virtuale virtuosistici. Niente di pretestuoso. Anche qui, un plauso per la correttezza e la misura degli autori.